domenica 30 agosto 2015

L'UOMO BIANCO IN QUELLA FOTO


Le fotografie, a volte, ingannano.
Prendete questa immagine, per esempio. 
Racconta il gesto di ribellione di Tommie Smith e John Carlos il giorno della premiazione dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico e mi ha ingannato un sacco di volte.
L’ho sempre guardata concentrandomi sui due uomini neri scalzi, con il capo chino e il pugno guantato di nero verso il cielo, mentre suona l’inno americano. Un gesto simbolico fortissimo, per rivendicare la tutela dei diritti delle popolazioni afroamericane in un anno di tragedie come la morte di Martin Luther King e Bob Kennedy.
È la foto del gesto storico di due uomini di colore. Per questo non ho mai osservato troppo quell’uomo, bianco come me, immobile sul secondo gradino.

L’ho considerato una presenza casuale, una comparsa, una specie di intruso. Anzi, ho perfino creduto che quel tizio – doveva essere un inglese smorfioso – rappresentasse, nella sua glaciale immobilità, la volontà di resistenza al cambiamento che Smith e Carlos invocavano con il loro grido silenzioso.
Invece sono stato ingannato. 
Grazie a un vecchio articolo di Gianni Mura, oggi ho scoperto la verità: l’uomo bianco nella foto è, forse, l’eroe più grande emerso da quella notte del 1968.
Si chiamava Peter Norman, era australiano e arrivò alla finale dei 200 metri dopo aver corso un fantastico 20.22 in semifinale. Solo i due americani Tommie “The Jet” Smith e John Carlos avevano fatto meglio: 20.14 il primo e 20.12 il secondo.
La vittoria si sarebbe decisa tra loro due, Norman era uno sconosciuto cui giravano bene le cose. John Carlos, anni dopo, disse di essersi chiesto da dove fosse uscito quel piccoletto bianco. Un uomo di un metro settantotto che correva veloce come lui e Smith, che superavano entrambi il metro e novanta.
Arrivò la finale e l’outsider Peter Norman corse la gara della vita, migliorandosi ancora. Chiuse in 20.06, sua prestazione migliore di sempre e record australiano ancora oggi imbattuto, a 47 anni di distanza.
Ma quel record non bastò, perché Tommie Smith era davvero “The jet” e rispose con il record del mondo. Abbatté il muro dei venti secondi, primo uomo della storia, chiudendo in 19.82 e prendendosi l’oro.
John Carlos arrivò terzo di un soffio, dietro la sorpresa Norman, unico bianco in mezzo ai fuoriclasse di colore.
Fu una gara bellissima, insomma.
Eppure quella gara non sarà mai ricordata quanto la sua premiazione.

Non passò molto dalla fine della corsa perché si capisse che sarebbe successo qualcosa di forte, di inaudito, al momento di salire sul podio.
Smith e Carlos avevano deciso di portare davanti al mondo intero la loro battaglia per i diritti umani e la voce girava tra gli atleti.
Norman era un bianco e veniva dall’Australia, un paese che aveva leggi di apartheid dure quasi come quelle sudafricane. Anche in Australia c’erano tensioni e proteste di piazza a seguito delle pesanti restrizioni all’immigrazione non bianca e leggi discriminatorie verso gli aborigeni, tra cui le tremende adozioni forzate di bambini nativi a vantaggio di famiglie di bianchi. 
I due americani chiesero a Norman se lui credesse nei diritti umani.
Norman rispose di sì.
Gli chiesero se credeva in Dio e lui, che aveva un passato nell’esercito della salvezza, rispose ancora sì.
“Sapevamo che andavamo a fare qualcosa ben al di là di qualsiasi competizione sportiva e lui disse “sarò con voi” – ricorda John Carlos – Mi aspettavo di vedere paura negli occhi di Norman, invece ci vidi amore”. 
Smith e Carlos avevano deciso di salire sul podio portando al petto uno stemma del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, un movimento di atleti solidali con le battaglie di uguaglianza.
Avrebbero ritirato le medaglie scalzi, a rappresentare la povertà degli uomini di colore. E avrebbero indossato i famosi guanti di pelle nera, simbolo delle lotte delle Pantere Nere.
Ma prima di andare sul podio si resero conto di avere un solo paio di guanti neri.
“Prendetene uno a testa” suggerì il corridore bianco e loro accettarono il consiglio.
Ma poi Norman fece qualcos’altro.
“Io credo in quello in cui credete voi. Avete uno di quelli anche per me?“ chiese indicando lo stemma del Progetto per i Diritti Umani sul petto degli altri due. “Così posso mostrare la mia solidarietà alla vostra causa”.
Smith ammise di essere rimasto stupito e aver pensato: “Ma che vuole questo bianco australiano? Ha vinto la sua medaglia d’argento, che se la prenda e basta!”.
Così gli rispose di no, anche perché non si sarebbe privato del suo stemma. Ma con loro c’era un canottiere americano bianco, Paul Hoffman, attivista del Progetto Olimpico per i Diritti Umani. Aveva ascoltato tutto e pensò che “se un australiano bianco voleva uno di quegli stemmi, per Dio, doveva averlo!”. Hoffman non esitò: “Gli diedi l’unico che avevo: il mio”.
I tre uscirono sul campo e salirono sul podio: il resto è passato alla storia, con la potenza di quella foto.
“Non ho visto cosa succedeva dietro di me – raccontò Norman – Ma ho capito che stava andando come avevano programmato quando una voce nella folla iniziò a cantare l’inno Americano, ma poi smise. Lo stadio divenne silenzioso”.
Il capo delegazione americano giurò che i suoi atleti avrebbero pagato per tutta la vita quel gesto che non c’entrava nulla con lo sport. Immediatamente Smith e Carlos furono esclusi dal team americano e cacciati dal villaggio olimpico, mentre il canottiere Hoffman veniva accusato pure lui di cospirazione.
Tornati a casa i due velocisti ebbero pesantissime ripercussioni e minacce di morte.
Ma il tempo, alla fine, ha dato loro ragione e sono diventati paladini della lotta per i diritti umani. Sono stati riabilitati, collaborando con il team americano di atletica e per loro è stata eretta una statua all’Università di San José.
In questa statua non c’è Peter Norman.
Quel posto vuoto sembra l’epitaffio di un eroe di cui nessuno si è mai accorto. Un atleta dimenticato, anzi, cancellato, prima di tutto dal suo paese, l’Australia.
Quattro anni dopo Messico 1968, in occasione delle Olimpiadi di Monaco, Norman non fu convocato nella squadra di velocisti australiani, pur avendo corso per ben 13 volte sotto il tempo di qualificazione dei 200 metri e per 5 sotto quello dei 100.
Per questa delusione, lasciò l’atletica agonistica, continuando a correre a livello amatoriale.
In patria, nell’Australia bianca che voleva resistere al cambiamento, fu trattato come un reietto, la famiglia screditata, il lavoro quasi impossibile da trovare. Fece l’insegnante di ginnastica, continuò le sua battaglie come sindacalista e lavorò saltuariamente in una macelleria. Un infortunio gli causò una grave cancrena e incorse in problemi di depressione e alcolismo.
Come disse John Carlos “Se a noi due ci presero a calci nel culo a turno, Peter affrontò un paese intero e soffrì da solo”.
Per anni Norman ebbe una sola possibilità di salvarsi: fu invitato a condannare il gesto dei suoi colleghi Tommie Smith e John Carlos, in cambio di un perdono da parte del sistema che lo aveva ostracizzato. Un perdono che gli avrebbe permesso di trovare un lavoro fisso tramite il comitato olimpico australiano ed essere parte dell’organizzazione delle Olimpiadi di Sidney 2000.
Ma lui non mollò e non condannò mai la scelta dei due americani.
Era il più grande sprinter australiano mai vissuto e detentore del record sui 200, eppure non ebbe neppure un invito alle Olimpiadi di Sidney. Fu il comitato olimpico americano, una volta scoperta la notizia a chiedergli di aggregarsi al proprio gruppo e a invitarlo alla festa di compleanno del campione Michael Johnson per cui Peter Norman era un modello e un eroe.
Norman morì improvvisamente per un attacco cardiaco nel 2006, senza che il suo paese lo avesse mai riabilitato.
Al funerale Tommie Smith e John Carlos, amici di Norman da quel lontano 1968, ne portarono la bara sulle spalle, salutandolo come un eroe.
“Peter è stato un soldato solitario. Ha scelto consapevolmente di fare da agnello sacrificale nel nome dei diritti umani. Non c’è nessuno più di lui che l’Australia dovrebbe onorare, riconoscere e apprezzare” disse John Carlos.
“Ha pagato il prezzo della sua scelta – spiegò Tommie Smith – Non è stato semplicemente un gesto per aiutare noi due, è stata una SUA battaglia. È stato un uomo bianco, un uomo bianco australiano tra due uomini di colore, in piedi nel momento della vittoria, tutti nel nome della stessa cosa”.
Solo nel 2012 il Parlamento Australiano ha approvato una tardiva dichiarazione per scusarsi con Peter Norman e riabilitarlo alla storia con queste parole: 
“Questo Parlamento riconosce lo straordinario risultato atletico di Peter Norman che vinse la medaglia d’argento nei 200 metri a Città del Messico, in un tempo di 20.06, ancora oggi record australiano.
Riconosce il coraggio di Peter Norman nell’indossare il simbolo del Progetto OIimpico per i Diritti umani sul podio, in solidarietà con Tommie Smith e John Carlos, che fecero il saluto del “potere nero”.
Si scusa tardivamente con Peter Norman per l’errore commesso non mandandolo alle Olimpiadi del 1972 di Monaco, nonostante si fosse ripetutamente qualificato e riconosce il potentissimo ruolo che Peter Norman giocò nel perseguire l’uguaglianza razziale”.
Ma, forse, le parole che ricordano meglio di tutti Peter Norman sono quelle semplici eppure definitive con cui lui stesso spiegò le ragioni del suo gesto, in occasione del film documentario “Salute”, girato dal nipote Matt.
“Non vedevo il perché un uomo nero non potesse bere la stessa acqua da una fontana, prendere lo stesso pullman o andare alla stessa scuola di un uomo bianco.
Era un’ingiustizia sociale per la qualche nulla potevo fare da dove ero, ma certamente io la detestavo.
È stato detto che condividere il mio argento con tutto quello che accadde quella notte alla premiazione abbia oscurato la mia performance.
Invece è il contrario.
Lo devo confessare: io sono stato piuttosto fiero di farne parte”.

mercoledì 26 agosto 2015

giovedì 6 agosto 2015

Michael Jackson, 10 cose che (forse) non sapete a 6 anni dalla morte

Sei anni fa moriva il Re del Pop.
 
il 25 giugno del 2009, il mondo ha detto addio a Michael Jackson. Una morte improvvisa, provocata da un'overdose di farmaco anestetico, il Propofol, che non ha mancato di scatenare polemiche. Il re del pop aveva 50 anni, e programmava di esibirsi in una serie di concerti.


Michael Jackson

 
Il nuovo tour si sarebbe chiamato This Is It : prevedeva ben 50 date alla 02 Arena di Londra, andate sold out nel giro di poche ore, e avrebbe dovuto segnare il ritorno di MJ sulla scena.
 
 
"This is it" ticket.
 
Dopo la sua morte, c'è stata una battaglia legale che ha visto contrapposti la famiglia di Jacko e la società organizzatrice dello spettacolo mai realizzato: la AEG Live. Il suo promoter è stato infine assolto dalle accuse, poiché non avrebbe assunto un medico inappropriato come sostenuto dai familiari di Jackson.
 

LE 10 COSE CHE NON SAPETE DI LUI
Cantante, ballerino, attore e sceneggiatore, entrato nel Guinness dei Primati per essere l’artista di maggior successo di tutti i tempi, con oltre un miliardo di dischi venduti (il primo da solista a 14 anni, sull’onda del successo dei Jackson Five, il gruppo di famiglia dove si esibiva fin da bambino), del Re del Pop i fan più accaniti sanno già tutto. Per quelli un po' più distratti, o per chi volesse avvicinarsi per la prima volta alla figura del grande artista, ecco invece le 10 cose che non riuscirebbero a sapere di lui così facilmente.
 
 
1. Non aveva un letto con l'ossigeno
Per fini estetici e per aumentare la propria longevità, si dice che Michael Jackson fosse solito dormire in un letto con l'ossigeno, poi donato dal cantante a un centro medico californiano come ausilio terapeutico per le vittime di ustioni.
In un'intervista, però, Michael Jackson ha negato di averlo mai utilizzato. L'artista si sarebbe limitato a donare 1 milione di dollari a una fondazione, che avrebbe poi comprato il letto con l'ossigeno. Sdraiatosi sul letto per provarne l'effetto, qualcuno avrebbe colto l'attimo per scattargli una fotografia, dando origine alla 'leggenda'.
il letto con l'ossigeno donato. 

 
 
2. Michael era calvo
Michael Jackson sembrava avere sempre dei capelli impeccabili. Acconciatura afro da ragazzino, lunghi ricicoli neri da adulto.
Tuttavia, dopo il 1984, fu costretto a mettere la parrucca.
Durante le riprese di uno spot Pepsi, dove il cantante recitava un concerto dal vivo, i capelli di Jackson presero fuoco a causa di un fuoco d'artificio del palco.
Per alcuni istanti Michael ha continuato a danzare, senza rendersi conto di quello che era successo.
Nonostante gli immediati soccorsi, il cantante ha subito ustioni di secondo e terzo grado al viso e del cuoio capelluto. Cosa che lo costrinse a tatuare l'attaccatura dei capelli sulla fronte e a indossare una parrucca. La cosa è diventata pubblica soltanto nel 2009, con uno scoop di Us Weekly, fortemente condannato da Pepsi.
dettaglio attaccatura dei capelli di MJ.
 
 
3. Voleva essere come Spiderman
Tutti noi abbiamo sognato di possedere dei superpoteri. Ma per Michael Jackson questa era diventata una vera ossessione.
Alla fine degli anni '90 ha cercato di acquistare la Marvel Comics, che aveva presentato istanza di fallimento.
Il suo sogno era quello di produrre un film su Spiderman, con se stesso nel ruolo del supereroe. Ma entrambe le imprese non gli riuscirono.

Un fotomontaggio che mostra il Re del Pop nei panni di Spiderman.
 

 
4. Il suo modello per il look era una statua egiziana
Un'antica statua egiziana conservata nel Field Museum di Chicago, che incarna una figura femminile, secondo Tina Saey avrebbe ispirato Michael Jackson per i numerosi interventi di chirurgia plastica al volto cui si è sottoposto nel corso della sua vita.
La stuta egiziana cui Jackson si sarebbe ispirato per il suo look.
 
 
 
5. Indossava stivaletti antigravità
Michael Jackson è stato uno dei migliori ballerini della sua generazione, e non solo. Anche se non ha inventato il moonwalk, lo ha certemente perfezionato.
Il Re del Pop ha però inventato e brevettato stivaletti speciali che permettono a chi li indossa di piegarsi in avanti e sfidare la forza di gravità.
Il cantante li ha indossati, per esempio, nel video musicale di Smooth Criminal, uno dei suoi pezzi più conosciuti, dove è possibile ammirarlo in piedi con un angolo di 45 gradi, ben oltre la capacità di qualsiasi essere umano. Un trucco realizzato e brevettato negli Usa (US Patent No. 5.255.452), con tanto di patentino. Una mossa fatta non per ricavarne un reddito, ma per impedire ad altri di usare lo stesso effetto. Fortunatamente per gli imitatori, però, il bretto è scaduto nel 2005, dopo che i proprietari hanno mancato una rata del pagamento.
Il progetto degli stivaletti antigravità brevettati dal Re del Pop.
 
 
 
6. Il suo migliore amico era uno scimpanzé
Nel 1985 uno scimpanzé di tre anni è stato salvato da un centro di ricerca sul cancro in Texas da Michael Jackson.
Da quel momento in poi i due sono diventati inseparabili. Bubbles ha seguito Jackson ovunque, diventando il suo compagno costante e 'migliore amico'. C'è anche chi sostiene che portasse i suoi stessi vestiti, fatti su misura. Dopo la morte di Jackson, Bubbles è stato trasferito in un centro per grandi scimmie a Wauchula, in Florida.
Michael Jackson in compagnia di Bubbles, la scimmietta era il suo miglior amico.
 
 
 
7. Era davvero malato di vitiligine
Michael Jackson era davvero malato di vitiligine, l'autopsia lo ha confermato. Si tratta di una malattia della pelle molto rara, che induce le cellule che producono melanina al malfunzionamento.
La causa esatta non è nota, ma è legata al sistema immunitario.
La vitiligine si manifesta attraverso macchie che tendono a crescere continuamente e a cambiare forma. Non si sa quindi se Jackson, che ha sbiancato la sua pelle con una crema chiamata Porcelana, lo abbia fatto nel tentativo di uniformare le chiazze, o se invece non sia stato proprio lo sbiancamento voluto dal cantante a scatenare la malattia.
MJ soffriva di vitiligine, una rarissima malattia della pelle.
 
 
 
8. Il singolo suo più famoso è Billie Jean
Spesso viene considerato come il singolo di maggior successo dell'artista, in realtà è solo quello più famoso. È riuscito ad arrivare infatti alla prima posizione nella Billboard Hot 100 e nella classifica dei singoli R&B, dove rimase per ben nove settimane consecutive.
Negli Stati Uniti fu inoltre votata come miglior singolo dell'anno nel The Village Voice e ricevette due Grammy Awards nel 1984 come 'Best Male R&B Vocal Performance' e 'Best New Rhythm & Blues Song'. Quello che ha venduto di più, invece, è We are the world, brano scritto da Jackson insieme a Lionel Richie.

Billie Jean è il singolo più famoso di Michael Jackson.


 


9. È stato protagonista di un videogioco
La corporation giapponese Sega, produttrice delle console Sega Master System e Sega Mega Drive, sviluppò un videogioco speciale per Jackson, chiamato Michael Jackson's Moonwalker.

La copertina ed un frame del videogioco della Sega dedicato a Michael Jackson.
 
 
 
10. A lui è stata dedicata la più grande danza zombie di sempre
Nel 2008, 4 mila persone provenienti da tutto il mondo hanno indossato guanti bianchi e un make-up da zombie per celebrare la danza Thriller di Michael Jackson.
4.177 'NON MORTI' SUL PALCO. L'attività ha coinvolto per l'esattezza 4.177 persone in 72 città di 10 Paesi del mondo, che hanno eseguito una danza sincronizzata.
MJ versionezombie per il suo video.
 
 

 

 

mercoledì 5 agosto 2015

Cristiano Ronaldo in versione clochard da spettacolo

Cristiano Ronaldo travestito da clochard. Con barba, baffi finti e tanta gente che alla fine rimane a bocca aperta quando viene svelata la verità. 



 

Soprattutto un  un ragazzino, che in Plaza de Callao, a Madrid, riceve dal "misterioso" uomo anche un pallone firmato. Firmato CR7, appunto. E così, per lanciare il suo novo brand, Ronaldo ha girato un video per le strade della capitale spagnola. Le riprese sono state effettuate lo scorso inverno e, a dire il vero, allora le immagini catturate dai passanti con gli smartphone finirono subito in rete. In questi giorni, però, è arrivata la pubblicazione della clip ufficiale. L'effetto non è niente male.

Il link del video:


https://www.facebook.com/video.php?v=727259990735790


martedì 4 agosto 2015

Cerchi lavoro?

Donatella Versace, 59 anni (???)



La stilista ha 59 anni. Nel corso del tempo, i suoi lineamenti sono molto cambiati a causa del ricorso al botulino. Ecco come appare oggi...
Va bene rifarsi per sentirsi a proprio agio co se stessi e con gli altri...un difettuccio eliminato dal proprio corpo ci rende certamente più felici, sicuri, belli...ma questa è ostinazione!
Perché "rovinarsi" fino a tanto?
...bah...